venerdì 10 maggio 2019

Terre alte


Preparare lo zaino mi provoca sempre un misto di eccitazione e nervosismo. Per questo motivo appena Till vede la tavola della cucina ingombra di pentolini, bombole del gas, fornello e altre cose indispensabili, sale sbuffando in camera rifuggendo il mio delirio. Lo zaino è tutto quando salgo verso le terre alte, è un oggetto sacro in cui viene riposto il nutrimento e la protezione per affrontare un ambiente tanto rigenerante quanto imprevedibile. Negli anni ho imparato a scegliere quali cose portare e come portarle, in un processo di sottrazione e di alleggerimento. Quasi una metafora della vita durante cui, invecchiando, impari a selezionare le amicizie liberandoti dei pesi inutili.
Oggi, tuttavia, lo zaino Made in Sweden tocca allegramente i 20kg ma il suo basto in alluminio distribuisce bene il peso e mi consente di procedere di buon passo sulla poca neve di questo inverno, verso la baita con vista sul Monte Civetta. Till è davanti a me, che scarta a destra e a sinistra, culo in alto e naso in basso, a seguire le tracce degli animali selvatici.
Con me ho portato un sacco a pelo, un materassino, una piccola accetta per fare legna, un fornello a gas, cibo per me e Till, della birra (solo per me), generi di conforto e acqua. Quest'ultima è la cosa più preziosa, è l'elemento che decide la tua permanenza nelle terre alte: difficilmente senza una fonte o un torrente si può rimanere per più di una notte in quota.
A 1800 metri usciamo dal bosco, le cime d'Auta spuntano da dietro la baita: quattro mura annerite dal fumo, una stufa a legna e un focolare che sarà la nostra abitazione per questa notte. Perché casa non è una mera proprietà, ma il luogo dove il tuo cuore ricomincia a battere. Apro tutte le imposte per far entrare la luce del sole e ora, da fuori, la baita sembra un essere vivente che si è appena risvegliato dopo un lungo sonno.
Svuoto lo zaino sparpagliandone il contenuto sul tavolo, appoggio il materassino e il sacco a pelo su una panca e metto per terra la coperta di Till, creando le nostre cucce per la notte.
Lascio Till libero di esplorare i dintorni, mi fido di lui, so che non scapperà, insieme formiamo una squadra. Io intanto mi metto di buona lena a fare legna per il focolare sfruttando un abete caduto lì vicino. Lavoro con l'accetta e il seghetto e in breve tempo ho una piccola catasta di rami e di licheni secchi adatti per l'innesco. Ricordo la mia avversione, tutta adolescenziale, nell'aiutare mio padre a fare legna e tutte le litigate che ne erano scaturite. Oggi, tornando trionfante con il mio carico, mi pare di vederlo seduto fuori dalla baita con la sigaretta in mano e un sorriso beffardo sul volto a dirmi: "Ne hai avuta un'altra di calda a venire quassù da solo... e se ti dovesse capitare qualcosa?!?"
Accendo il fuoco aiutandomi con i licheni secchi e la parte prossimale dei rami dell’abete, dove la resina si è raccolta dopo lo schianto a terra. Una prima fiammata crea la base del mio focolare e l'ambiente inizia a scaldarsi, e con esso anche l'animo. Il sole intanto cala sulla valle e sulle cime infiammando di rosa la roccia dolomitica e io, brindando alla volta del Civetta con la mia fiaschetta di genepì, dedico questo brindisi a chi va su. A chi si sente a casa solo nelle terre alte. A chi deve partire e faticare per sputare fuori il dolore e poter tornare tra la propria gente guarito.
A tutti quelli che vanno su, per aggrapparsi alle falesie, come un bimbo farebbe alle vesti della propria madre.
A noi figli della roccia, fratelli e sorelle della montagna, che andiamo su per elevarci sopra le nuvole, per ritrovarci nella pace delle bestie, più libere di noi.
A noi che andiamo su per non rimanere sotto.
La permanenza in montagna senza l'affanno e i gingilli della modernità dilata il tempo e lo porta alle cose veramente necessarie quali: mangiare, dormire e scaldarsi, ritornando a uno stato selvatico.
Chissà se l'essenziale ci salverà da questa corsa frenetica ad avere tutto, prima e meglio degli altri?
Penso a tutto questo mentre fuori la notte si è impossessata della prateria alpina. Mi chiudo nel sacco a pelo e mi addormento nel mio hotel a 5000 stelle.
L'alba di un nuovo giorno mi accoglie e ancora dormo quando Till mi sveglia leccandomi la mano.
Esco stiracchiandomi sull'uscio della baita imitato dal mio fedele compagno, raccatto la borraccia, la macchina fotografica e poco altro e, dopo aver bevuto del tè caldo, mi incammino verso la forcella dei Negher. Appena sopra il bivacco il sentiero inizia subito a salire ripido verso i prati dove pascolano stambecchi e camosci, e in alcuni punti la neve che ingombra la traccia rende il passo difficile. Fatico a stare dietro a un Till eccitato dagli odori delle bestie selvatiche, ogni tanto mi fermo e scruto con il binocolo verso la parete a picco delle Auta, sperando di vedere spuntare un paio di corna lunghe e ritrovare gli stambecchi a cui sono tanto affezionato. Salgo ancora fino ad un masso con il segnavia ed eccoli, appena sopra di me, sornioni come sempre, una coppia che bruca l'erba bagnata dalla brina. Mi siedo per terra, punto la macchina fotografica e scatto a raffica, in piena eccitazione per l'incontro straordinario che sto avendo. Non è facile tenere fermi quasi 2 chili tra apparecchio e obbiettivo con la mano che trema per l'emozione, ma ci provo lo stesso. Tanti scatti saranno a vuoto, alcuni sfocati, ma è nella mente che conservo la foto migliore. Indietreggio fino al sentiero, lasciando i due becchi alle loro faccende quotidiane e proseguo verso la forcella dei Negher, sorvolato da un'aquila che deve avere il nido qui vicino. I nativi sud americani dicevano che essere sorvolati da questo rapace è un buon segno, ma io sono convinto che soprattutto sia un onore. Mi siedo su delle rocce, sotto di me il lago è ancora ghiacciato, intorno le montagne mi salutano tutte schierate: Civetta, Pelmo, Antelao, al mio fianco la Marmolada e a guardarmi le spalle il Mulaz. L'aria fresca mi passa tra le dita delle mani, finalmente rinnovo il mio spirito al cospetto dei giganti di granito. Me lo permettono sempre, da quando sono entrato in punta di piedi nel loro tempio.