lunedì 14 giugno 2021

78° Nord

Il mar glaciale artico scorreva pigro sotto la fusoliera del Boeing 737 della Scandinavian Airlines, l'arcipelago delle isole Svalbard emergeva dalle acque scure con picchi di roccia nera abbracciate dalle lingue dei tanti ghiacciai. Di tanto in tanto, uno scossone scuoteva l'apparecchio che scivolava via veloce, rompendo batuffoli di nuvole candide. Ingrid dormiva appoggiata a Jonas, che scrutava l'orizzonte e la superficie che sembrava immobile sotto di lui, ma che in realtà era interrotta dallo sbuffo dello sfiato delle balene.  Tornava in queste terre estreme dopo tre anni da quella volta che, schifato da tutto, si licenziò da un lavoro che lo stava logorando senza dargli nulla in cambio,  tirò una freccetta su una cartina appesa al muro e partì per la destinazione che il fato aveva scelto per lui, alla deriva come un naufrago del cielo verso nord.  Oslo lo accolse quando marzo volgeva al termine e l'aria iniziava a scaldarsi mentre dal fiordo sopraggiungeva il profumo di primavera. 

Trovò alloggio a nord di Oslo, a Sognsvann,  vicino all'omonimo lago circondato da verdi foreste che rendevano unica la capitale norvegese. Grazie ad un amico di università che conosceva bene Oslo, avendo trascorso lì il periodo dell'Erasmus, trovò lavoro in un pub in centro. Con i suoi capelli castano chiaro e gli occhi verdi si mimetizzava bene tra i norvegesi, che lo salutavano sempre come uno di loro, tanto che piano piano imparò anche la loro lingua, mentre lui insegnò loro modi di dire e qualche parolaccia del suo paesino tra le Dolomiti. Ogni sera al bancone del bar veniva un ragazzo norvegese, alto e possente, i capelli biondi erano rasati ai lati e lasciati lunghi in un codino sopra. Aveva, come tanti nordici, occhi azzurri penetranti e un elaborato tatuaggio con impresse rune propiziatrici all'avambraccio sinistro, il quale spuntava da sotto le maniche arrotolate della camicia.  Il suo nome era Björn, che significava orso, e in effetti un pò ci assomigliava. A differenza di tanti norvegesi, che orsi lo sono per davvero e non riescono a dare confidenza per più di dieci minuti, Björn era loquace, sopratutto dopo un paio di bicchieri di sidro. Una sera domandò allo straniero dietro al bancone chi fosse, e da dove venisse:

- Jeg er Jonas, fra Dolomittene (1) - rispose Jonas mentre stava spillando l'ennesimo sidro. 

- Dolomitten?!? De fortryllede fjellene. Men er det sant at de blir rosa ved soloppgang og solnedgang som om det var en trollformel? (2) - chiese Björn. 

- Ja, de er unike (3) - disse Jonas mentre gli passava il bicchiere ricolmo  di sidro, ed iniziò a parlargli delle montagne che sembravano scolpite da mani divine, del Re Antelao e della Regina Marmolada, di re Laurino e del mitico giardino delle Rose, delle sue valli e della sua gente e del motivo per cui era partito così lontano verso Nord.  Björn lo ascoltò estasiato, gli sembrò di vivere quelle montagne, di sentire il fischio degli stambecchi e dei camosci, e il profumo delle erbe di montagna che crescevano tra le rocce. Finì il sidro, appoggiò pesantemente il bicchiere sul tavolo e, guardando Jonas fisso negli occhi, esclamò: 

- Om to uker drar jeg til Svalbard, følg meg! (4) -

Jonas stette in silenzio per qualche secondo, tirò fuori il suo zaino da sotto il banco ed estrasse una fiaschetta con dentro della grappa al genepì che versò in due bicchierini, uno per sé ed uno per Björn. Urlando - Skål! - accettò la proposta del suo nuovo amico. 

Trascorse due settimane raccolse le sue cose, salutò Oslo e volò oltre il circolo polare artico, in compagnia di Björn, atterrando dopo circa 3 ore di volo al piccolo aeroporto di  Longyearbayen. Da lì salirono su di un pick-up Toyota e percorsero gli otto km che separavano la casa di Björn dall'aeroporto. Era metà maggio e le temperature erano gradevoli, aiutate anche dalla corrente del golfo che lambiva l'arcipelago rendendo meno duro l'inverno, le montagne nere sfumavano verso un cielo iridescente. La casa, o la cabina, come la chiamava Björn, era di un colore giallo ocra, con il tetto in lamiera ricoperto dai pannelli solari ed era situata in riva al mare.  Al loro arrivo i cani, due malamute, iniziarono ad abbaiare  e scondinzolare festeggiando il ritorno del loro padrone. Sll'uscio comparve Kari, che salutò con un sorriso Björn e Jonas. 

Kari li fece accomodare all'interno della baita in riva al mar glaciale artico, su un lato la stufa a legna, sull'altro una moderna cucina con accanto diversi scaffali con le scorte: caffè, di cui Björn era un assiduo consumatore, e alcune bottigliette di olio di fegato di merluzzo, indispensabile quando l'isola viene avvolta dalle tenebre della lunga notte polare. Kari aprì il frigo e prese tre birre del locale birrificio, il Bryggeri, fondato da un certo Robert. Robert era un ex minatore originario delle Lofoten che per produrre birra nell'artico intasò il centralino dell'ufficio di sanità Norvegese per ben 5 anni, chiedendo di poter annullare una legge del 1928 che proibiva la produzione di alcool a Longyearbayen. D'altronde, per vivere quassù, la perseveranza e l'attitudine a non farsi abbattere sono requisiti necessari per non farsi inghiottire dalla natura sincera e spietata dell'artico, pensò Jonas mentre sorseggiava una delle migliori birre IPA che avesse mai bevuto.   

La cabina si trovava vicino alla riva del mar glaciale artico, a ridosso di montagne nere inframezzate da lingue di neve. Un fulmaro solcava il cielo, salutando l'arrivo di Joans al polo nord, dove nessun suo antenato era mai arrivato. La cabina di Björn, sarebbe stata la sua dimora per i prossimi mesi dell'anno, dove avrebbe lavorato come guida per i turisti che sbarcavano dalle navi da crociera, alla ricerca di una vacanza oltre il circolo polare artico. Alle pareti appese i disegni che Tobias gli regalò prima che partisse, immagini a china delle montagne e degli animali di casa. Tobias gli aveva allungato questi disegni arrotolati attorno a una bottiglia di grappa al genepì, in modo che non si dimenticasse da dove era partito. Jonas a volte, nelle sere di vento forte, quando la nostalgia di casa si faceva sentire, apriva la bottiglietta e annusava forte il profumo simile alla liquirizia. Subito si trovava a 2500 m di altezza, sdraiato a pancia in giù, tra stelle alpine e le negritelle, a fare dialoghi fantastici con gli stambecchi. 

Nei giorni liberi, Jonas esplorava i dintorni della cabina con il cane Floki. Terra nera, inframezzata da piccoli cuscinetti di fiori artici. A tracolla teneva il fucile, requisito obbligatorio per avventurarsi nell'entroterra popolato da poco amichevoli orsi polari. Jonas sapeva sparare bene, grazie agli insegnamenti del nonno, ma aveva avuto istruzioni ben precise da Björn di tenersi lontano da certe valli dove era risaputo si aggirassero gli orsi, e comunque di sparare prima un colpo in aria. Infatti doveva compilare meno scartoffie un orso che uccideva un uomo, piuttosto che viceversa.

Talvolta incrociava il percorso delle bianche renne artiche che, con le loro zampe corte e tozze, avevano in comune con i suoi stambecchi il fatto di non curarsi del mondo circostante, rimanendo impassibili e pacifiche davanti a tutto. Una mattina, mentre sorseggiava il caffè fuori dalla sua cabina, riuscì ad accarezzare il muso di una di loro, con il palco ancora ricoperto del velluto, maestoso come quello dei cervi della sua vallata che a ottobre impregnavano il bosco attorno al suo tabià con il loro odore, chiamando a gran voce le femmine in giro nei paraggi. Jonas si meravigliava sempre di più che in una terra così inospitale e dura per l'uomo ci fosse così tanta vita: pernici così simili alle "bianche" che Brick fermava tra le rocce ricoperte di licheni delle sue montagne, volpi dal pelo mutevole a seconda della stagione e tantissime varietà di uccelli. Le Svalbard sono infatti tappa per tanti uccelli migratori, e il più piccolo di loro, lo Zigolo delle Nevi, Jonas se lo trovò fuori dal tabià durante un inverno particolarmente freddo e nevoso, che sbatteva le ali nella neve come era solito fare.  

Quando le navi da crociera partivano, lui le guardava passare davanti alla cabina, seduto in una poltrona ricavata da vecchi pallet di legno, sorseggiando la birra del polo nord, mentre ogni giorno il sole illuminava per sempre meno ore l'arcipelago. Guardava sfilare oltre l'orizzonte la sagoma di quelle opulenti navi riflettendo su quanto e cosa gli occupanti di quelle navi avessero imparato nel viaggio fino al 78° parallelo. Quanto quelle terre così a nord avessero cambiato il loro orizzonte così come lo avevano fatto con lui, partito una notte di fine marzo per andare alla deriva, trasportato dagli eventi, fino alla sommità del mappa che aveva appeso nel salotto del suo tabià, tra le corna di cervo, i disegni a carboncino del cedrone di Tobias e la libreria piena zeppa di libri di storia e di montagna.  

Jonas aprì gli occhi e si svegliò dal torpore che il rumore sommesso del volo gli causava ogni volta che volava, quando il pilota abbassò i flap per l'atterraggio facendo vibrare la carlinga dell'aero. Svegliò dolcemente Ingrid proprio quando all'interfono si sentì gracchiare l'avviso: - cabin crew, cabin crew reading for landing -

Dal momento in cui tre anni prima, mentre si allontanava con la nave, vide scomparire all'orizzonte le sagome delle case colorate di quell'avamposto umano all'estremo nord, sapeva che sarebbe ritornato. Ognuno di noi ha dentro di sé una bussola rotta che segna una direzione precisa e intima, chi a Sud, chi ad Ovest, chi, come Jonas, a Nord. Perché nonostante tutti gli imprevisti che la vita ci riserva, ci sono luoghi che continueranno ad attrarci, magnetizzati come l'ago della propria bussola interiore rotta, facendoci ritornare, prima o poi, oppure rimanere per sempre. 



(1) - Sono Jonas, dalle Dolomiti
(2) - Dolomiti?!? Le montagne incantate. Ma è vero che all'alba e al tramonto si tingono di rosa come se fosse una formula magica?
(3) - Sì, sono uniche
(4) -Tra due settimane andrò alle Svalbard, vieni con me!