Una passeggiata nel bosco
Questa mattina una tregua delle precipitazioni mi permette di fare un giro nel bosco sopra casa.
Ne ho bisogno, sento il nervoso salire e ho bisogno di farlo uscire, uscendo. Mi metto lo zaino in spalla. Dentro vi ho riposto la merenda, l’acqua e una macchina fotografica reflex con
teleobiettivo montato e pronto all’uso.
Fuori dalla porta di casa il sole mi bacia il viso. Finalmente!
Ultimamente avevo iniziato a pensare che il paese dolomitico dove ho deciso di vivere, fosse
diventata la regione più a sud delle Norvegia, da quanta acqua è caduta dal cielo.
Il sentiero sale ripido, staccandosi dal gruppo di case della frazione di Valt.
Esco dal sentiero per camminare fuori traccia ma seguendo altre tracce.
Il bosco è come un libro che racconta storie a chi le sa leggere: colori, suoni e profumi che fanno parte di un racconto delicato e meraviglioso in ogni sua sfumatura, anche la più brutale.
In primavera tutto questo esplode sotto le gocce di pioggia che arrivano dalle montagne, i primi
fiori bucano l’ultima neve che resiste al cambio di passo della stagione.
Sopra la linea degli alberi,nelle arene, i galli forcelli cantano del loro amore chiamando, oltre le femmine, anche la prossima estate.
Mi avvicino ad un abete, delle scaglie di legno hanno attirato la mia attenzione, o meglio, stavo
proprio cercando quel tipo di scaglie, residuo di lavorazione di un tipo molto particolare che lavora di testa creando abitazioni che possono durare fino a trent’anni. Alzo lo sguardo e venti metri più in alto vedo un buco rotondo, perfetto. Il bordo in basso è chiaro, consumato da un’assidua frequentazione del tipo di cui vi stavo parlando prima.
Arretro e mi nascondo dietro un albero lì vicino.
Ho con me un telo mimetico di quelli che i militari usano per nascondersi dalla vista
dall’alto. Anche a me serve per lo stesso scopo, ma in un contesto più pacifico. Non attendo
molto e sento un canto ritmico avvicinarsi nella radura. Guardo verso l’albero ed ecco che una
testolina nera con una macchia rossa sbuca dal foro proprio mentre colui che annunciava il suo
arrivo si aggrappa all’albero. Si guarda intorno per vedere che sia tutto tranquillo ed ecco che unfulmine nero esce dal foro perdendosi nel bosco.
Io sono sempre nascosto, ogni tanto scatto una foto e osservo l’avvicendarsi delle faccende della coppia. Sono due esemplari di picchio nero, un maschio e una femmina. Hanno scavato di fino nel legno per ricavare il loro nido. Dentro ci sono almeno tre piccoli, che attendono il cibo per crescere e per conquistare l’aria e il bosco attorno a loro, una volta che le piume saranno
cresciute. Trovare cibo per i picchi non è più tanto difficile, sopratutto dopo la tempesta dell’ottobre del ’18.
Le migliaia di alberi rovinati a terra dalle raffiche di vento hanno spianato la strada affinché un
coleottero devastasse, a modo suo, il resto del bosco. Sopratutto quello sano, ovviamente.
Si dice che le sfortune non arrivino mai da sole, ma questo è un pensiero umano, che da sempre si arrovella per capire i meccanismi naturali. A volte lo capisce, a volte vorrebbe prendere le redini e fermare un fenomeno in drammatica espansione.
Di tutti gli studi dei dottori forestali sguinzagliati nei boschi a mettere trappole per studiarlo, al bostrico poco importa. Lui ha fame. Oltretutto la famiglia è numerosa e lui è anche un buongustaio. Mangia tra la corteccia e la polpa del legno, scavando piccoli cunicoli, succhiando la linfa vitale dell’albero.
Chissà se l’albero prova qualcosa mentre il bostrico scava, osservo con un certo dispiacere che non può usare i rami per grattarsi la corteccia come fa il malato di scabbia mentre l’acaro scava sotto la pelle. Può solo rassegnarsi a perdere la corteccia e diventare di un grigiore mortale, mentre attorno a lui altri alberi fare la stessa fine.
Come un incendio ha nel vigile del fuoco la sua nemesi, il bostrico ha nei picchi il suo principale
nemico. D’altronde in natura tutto tende all’equilibrio.
Mi alzo dal mio nascondiglio e caccio il telo mimetico nello zaino. Mi allontano furtivamente. Non voglio essere fonte di disturbo proprio in un momento cosi delicato come la crescita di tre piccoli.
Torno sui miei passi, respiro forte. Nelle narici mi pervade il profumo resinoso proveniente da una catasta di abete tagliato per l’annuale parte della legna destinata al riscaldamento. Penso che il bostrico non ha dato solamente possibilità di cibo per i picchi ma anche tanta legna da ardere per gli abitanti di questo paese di montagna.
Il bosco mi aiuta a pensare, in un certo senso ripulisce la mia mente dai pensieri che tendono al
nero sfumandoli verso il verde.
Proseguo il mio peregrinare tra un albero e l’altro. Una volpe mi compare da dietro un albero e
velocemente si defila dietro un cespuglio. Nella terra umida scorgo le impronte del via vai
notturno. Impronte di cervi, della martora, della volpe e poi di un altro canide. Faccio il raffronto
con la mia mano. È proprio grande, sui venti centimetri. Studio il terreno li attorno. Non vedo
impronte di scarpe, penso sia improbabile siano del grosso cane che veglia le mucche al pascolo a Valt.
Possono essere solo di un lupo, il fantasma che è apparso negli ultimi tempi e di cui io
riesco solo ad acciuffare la sua scia senza riuscire a vederlo.
O meglio, per averlo visto l’ho visto,in una mattina di fine inverno mentre andavo al lavoro.
Ma come capita quando cerchi di riprendere qualcosa di inafferrabile la reflex non era con me.
Mi rialzo e continuo questo peregrinare senza meta nel bosco guardando ora in alto, ora in basso cercando un segno di vita da poter riprendere e studiare.
L’unico segno che trovo però sono i resti di una piccola cinciarella. Il blu delle sue piume stona
con il verde del bosco. Qui qualcuno ha predato, penso. Non la volpe, non il lupo, più probabile
una civetta.
Sono affascinanti le civette, anche se a tanti il loro canto sembra qualcosa di lugubre.
Invece a me piace. Ho anche imparato a imitarlo fischiettando.
Il sole ora è proprio sopra cima Pape, segno che siamo verso la metà della giornata. Mi siedo sotto un albero e tiro fuori la mia merenda.
Niente di che, qualche granaglia mista a mirtilli rossi essiccati.
D’altronde non ho molta fame quando sono in cerca. Tutto il mio corpo e i miei sensi sono verso la natura che mi circonda.
Guardandomi intorno il posto mi ricorda qualcosa. Ma certo!
E’ dove l’anno scorso c’era un nido del picchio nero. Lo trovo, guardo con il binocolo verso il
foro. Non sembra esserci nessuno ma un particolare attira la mia attenzione. Due piccole piume di una cinciarella sono impigliate nella corteccia. Fischietto cercando di imbrogliare qualcuno più furbo di me senza troppa convinzione.
Non si muove niente. Meglio ritornare a casa, penso, ho già rubato troppo tempo alle incombenze umane che mi aspettano senza troppe gentilezze.
Mi carico lo zaino sulle spalle quando con la coda dell’occhio vedo due occhi gialli comparire
sull’uscio della tana. Punto la reflex, scatto alcuni fotogrammi per un breve istante che rimarrà
eterno su un file digitale.
La Civetta Capogrosso non mi ha concesso molto tempo, gli occhi gialli sono scomparsi presto nel buio del buco nel legno di un albero decapitato da una raffica di vento.
Quel buco dove l’anno scorso ho ripreso l’involo dei giovani di Picchio Nero quest’anno
custodisce la progenie di un altra specie.
Rimango ancora un pò seduto sotto un vecchio abete che si trova di fronte al nido della Civetta.
Riprendo a vivere ora che il mio io selvatico si è destato da sotto la coltre della civiltà.
Mi ricollego con l’essenza primitiva dell’uomo.
Quello spirito da sempre collegato alla natura così come la Primavera fiorisce dopo l’Inverno. Così come il legno collega vita e morte di bostrico, picchio nero e civetta capogrosso.
Questo testo si è classificato al 3° posto al concorso letterario " La Primavera e il Legno" che si è svolto durante la festa di Primavera "El Bon de l'Ansuda" il 16 giugno 2024 a Falcade.
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