Undicimila piedi
Mi chiamo Pietro e sono un pilota. L’altimetro segna undicimila piedi sul
livello del mare. Appena sotto di me si staglia il profilo di montagne a me
care. Sto cavalcando un razzo con le ali. Il suo rombo sta sconquassando la
quiete delle montagne. Eppure a me piace quando la missione di addestramento
della giornata mi manda quassù dove sono nato, una primavera di venticinque anni
fa. Riconosco il profilo delle vette del Focobon e del Mulaz che sfilano sotto
la carlinga del mio Fiat G91. Spingo aventi la manetta, la pressione si fa
sentire sul mio corpo. Pochi secondi e passo sopra la valle che si apre ai piedi
delle cime. Vorrei scendere e andare a salutare la nonna, che non è mai riuscita
a vedermi in tuta da aviatore. Penso sarebbe orgogliosa di me e di dove sono
arrivato, a cavalcare un razzo con le ali da svariati milioni di lire. Non
sarebbe contenta di sapere che il mio aereo può sganciare bombe, lei che ha
vissuto la guerra con i tedeschi in casa. Faccio una rapida cabrata virando
verso destra lasciando Falcade sotto di me. Giù avranno sentito il rombo del mio
G91. Chissà se al bar dell’Ezio avranno guardato verso il cielo e avranno detto:
lè il Pietro! Chissà onde chel’le drio dì! È bello il mio aereo: sull’ala del
timone è dipinto un gatto nero che caccia tre topi.
Non sono il primo della valle del Biois che vola con questo simbolo dipinto sulla carlinga.
A dire il vero non sono nemmeno il primo che è andato contro il vento che in primavera,
alla mattina, risale la valle, quello che sembra quasi voler fermare i figli che
partono di buon’ora per oltrepassare il recinto che li ha tenuti chiusi lassù
tra le montagne per cercar fortuna. Partivano stanchi di dover star su o per
scrivere la storia loro malgrado. Alcuni sono tornati, altri hanno trovato un
destino che li ha trattenuti nella terra dove erano andati. Se sono a bordo di
questo caccia lo devo a mio nonno e alle sue storie di quando era militare. Alla
visita di leva avevano notato che era meccanico di automezzi e quindi lo avevano
spedito, unico del paese, in aviazione. Grazie a questo si evitò la Russia e una
morte quasi certa. Ricordo un me bambino, fuori dalla chiesa di Caviola, dopo il
rosario di maggio seduto sulle sue ginocchia. Il vento fresco che scendeva dalle
Aute rendeva piacevole lo stare lì, in compagnia, dopo aver reso il dovere alla
Madonna. Compariva un tavolino, una bottiglia di vino bianco, un po di formaggio
e del pane. Si stava lì, fino a che l’oscurità della sera non prendeva possesso
del paese. Nonno era un abile oratore, anche se ripeteva sempre le stesse
storie. La sua storia preferita era di quando lo mandarono a Roma, presso
l’aeroporto di Ciampino. Per lui che non aveva mai oltrepassato Cencenighe fu
come partire per una missione sulla Luna. Immaginatevi poi la meraviglia, una
mattina che stava armeggiando dietro il carburatore di un Macchi C202 sentirsi
apostrofare - Esto ti alora che te me combine l’aereo?-. A parlare era stato
Ferruccio, anche lui di Falcade. Anche se era andato a vivere a Mestre in
giovane età si ricordava ancora del nonno e delle scorribande che facevano per
il paese in sella alle loro biciclette. Rimasi talmente affascinato da queste
storie che un giorno di giugno, con un vento che stranamente spingeva verso la
pianura, presi il treno da Belluno per andare giù per la bassa per diventare
pilota. E ci riuscii. Pensa un po’ te l’ironia: un montanaro che diventa pilota
di caccia e vola proprio nello stormo dedicato a Ferruccio Serafini, un altro
montanaro. Eh ma, dicevo, non sono mica stato l’unico montanaro a voler volare.
C’era anche Alvise Andrich di Vallada, un altro montanaro che volava, e volava
pure bene. Sarà che quassù si diventa caparbi fin dalla tenera età e
condividendo le crepe con i camosci non si ha paura del vuoto così come non si
ha timore del vento quando soffia forte. Viro stretto ancora verso sinistra, il
muso del G91 punta di nuovo sulle cime del Focobon, delle pale di San Lucano e
della parete nord dell’Agner. La missione di addestramento di oggi prevede un
intercettamento di un nemico con successivo combattimento ravvicinato. I
colleghi americani di Aviano lo chiamano Dog Fight e in effetti quando voliamo
cosi, sembriamo proprio due cani che si azzuffano. Intravedo il G91 pilotato dal
comandante della base. Sta volando ora sopra Cima Pape, vedo che si impenna in
verticale guadagnando quota. Mi ha visto, il combattimento tra cani è iniziato.
Viro deciso verso destra, voliamo sopra casa mia, non posso fare brutta figura.
La forza centrifuga mi appiattisce sul sedile, sento che il peso del mio corpo
aumenta esponenzialmente ma la manovra mi riesce. Il comandante cerca di
mettersi sulla mia coda, io vado su in verticale, mi nascondo tra le nuvole e
riesco a sganciarmi dal suo attacco. Ora sono io che conduco il combattimento.
Il comandante vira verso la Marmolada, vuole sfuggirmi ma io sono lì, in agguato
come il gatto che avevamo a casa quando ero bambino. Stava lì, fuori dalla
stalla, fermo per ore, poi quando il topolino metteva appena fuori il muso dalla
tana… Pam! Un colpo secco di zampa e il topo era suo. Scendo di quota e sbuco
all’improvviso da dietro il mio amato Mulaz ancora ricoperto di neve. Gli piombo
in coda e sferro la mia zampata! Il comandante non può far nulla se non
decretare la mia vittoria. Ci affianchiamo, il comandante è contento di come ho
portato a termine questo combattimento. Un giocare alla guerra come da bambini
rendendo reali i mezzi che erano solo nella nostra fantasia. —Ci vediamo al
circolo ufficiali, mi sa che hai vinto una birra- mi dice alla radio e subito
dopo vira deciso verso la pianura per rientrare sul nostro aeroporto di Istrana.
Io non voglio rientrare. Voglio guardare ancora un attimo casa mia dall’alto.
Manco da Natale, sono pochi mesi ma la nostalgia è grande. Dall’alto penso che
la mia terra sia meravigliosa. Le montagne hanno ancora il cappello, ma il
cappotto di neve se lo sono già levato per lasciare lo spazio alla maglietta
verde dei prati in rinascita dopo l’inverno. Chissà se i crochi sono sbocciati
in Val Freda? Devo portare su la morosa a vedere la mia terra, a farle conoscere
la nonna e tutta la mia famiglia. Beh non c’è solo da andare in giro. Mio papà
aspetta la mia prossima licenza per andare a fare la legna nel bosco. Perché
quassù è tutto legato. Più che quattro stagioni ce ne sono due. Una per
desiderare i mesi di bel tempo e l’altra per attrezzarsi a quelli dove i mesi
sono freddi. La torre mi chiama. Mi intima di risalire a 12000 piedi e di
seguire la rotta di rientro. È ora di tornare alla base. Viro lentamente per
godermi ancora un attimo casa, come quando da piccolo volevo rimanere sotto il
piumone per essere coccolato dal suo tepore fino all’ultimo momento prima di
andare a scuola. Passo di fianco al Civetta e scendo verso la Valbelluna. Sopra
le colline di Revine uno scossone fa vibrare la carlinga. Guardo gli strumenti,
ho una perdita di potenza dal motore. Strano, eppure ho ancora abbastanza
carburante e non ho impattato con uno stormo di uccelli. Sento che sto andando
giù. Ripasso mentalmente tutte le istruzioni e le liste d’emergenza. Guardo in
basso. Eiettarsi e lasciare l’aereo al proprio destino significa farlo cadere
sulle case. Comunico alla torre l’avaria, perdo quota e velocità. Sono lucido ma
il cuore batte all’impazzata. Non mi va di morire in questa giornata di maggio
così bella. Controllo ancora tutti gli strumenti, provo a dare potenza e l’aereo
sembra rispondere anche se ancora in maniera insufficiente. A un tratto sento
una spinta da dietro l’aereo. Sotto di me passa il Montello, sono quasi in base.
Vedo la pista e le luci rosse in lontananza. Abbasso i flap, giù il carrello, un
altro sussulto, il motore si spegne ma riesco a planare fino alla pista
atterrando incolume. Riesco a fare un atterraggio morbido dopo tutto. Come tocco
terra parte la squadra di soccorso. Vedo i loro sguardi, sotto gli elmetti e le
tute ignifughe. Sono increduli di come sia riuscito a coprire tutta quella
distanza con il motore in avaria. E a dire il vero neanche io me ne capacito.
Apro il tettuccio del mio G91, mi slego dalle cinghie che mi assicurano al
sedile e scendo dall’aereo. Quando sono sulla pista il mio sguardo va alle
montagne sullo sfondo e allora tutto diventa chiaro. Sono state le montagne a
salvarmi grazie al vento che scende dai loro pendii. Quel vento teso e caldo che
in primavera scioglie la neve, e che porta fino in pianura il profumo resinoso
dei boschi, dei nevai e dei torrenti. In quei giorni se chiudo gli occhi non
sono più un pilota militare, ma un ragazzino che corre per i boschi, sentendo
l’aria sul viso, libero di inseguire i sogni di una vita.
Questo racconto si è classificato al secondo posto al concorso letterario della manifestazione "El bon de l'ansuda" a Falcade durante l'edizione 2025. Il tema del concorso era " Venti di Primavera" ed è dedicato alla memoria di Liana Cavallet.
Eventuali riferimenti a persone o cose è da considerarsi puramente casuale. Mi si perdonino eventuali errori storici o aereonautici. Se presenti, si vedano come licenza letteraria per lo svolgimento del racconto.
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