Pernice bianca, Lagopus muta (con Domenico Ferrara)
La sveglia suona molto presto questa mattina, ed io, ancora avvolto e raggomitolato nel sacco a pelo, mi trovo nell’eterno conflitto del rimanere ancora quei famosi “5 minuti” a crogiolarmi nel suo tepore od uscire dal mio rifugio di fortuna, accendere il fornello per una colazione fugace e partire verso l’alto. La mente vorrebbe già essere lassù, mettere un piede avanti l’altro sul sentiero che porta alla cima, mentre il mio corpo rifiuta di affrontare lo sforzo ed un’escursione termica così repentina. Ma tant’è, il momento peggiore è sempre quello di aprire la zip, mettere le gambe fuori e infilarsi gli scarponi. Il resto è tutto in discesa, si fa per dire…
È ancora molto buio fuori, mancano 2 ore all’alba e sono felice. Ho tutto il tempo di godermi ogni singolo passo, arrivare con calma sul posto ed attendere il fremito dei primi raggi di sole. Prendo una bella boccata di aria fresca mentre guardo il cielo: è la prima cosa che osservo e mi mozza il fiato da quanto è bello. La sensazione è quella di qualcuno che ha srotolato una coperta sul mondo ed io che osservo la luce penetrare dai suoi infiniti forellini. Sono bambino di nuovo. Le stelle si piegano sulla volta celeste, non so dove guardare. Combinazione, mi trovo proprio nel mezzo dell’estate e durante il passaggio delle Perseidi, di quelle che comunemente chiamiamo “Stelle cadenti”. Il cielo si fa in brandelli di luce che rigano il paesaggio, sembra quasi a volerne sottolineare la bellezza, alterando l’apparente quiete che mi circonda. Mi fanno sentire davvero piccolo. Piccolo ma fottutamente vivo.
Con movimenti ormai automatici mi infilo lo zaino, indosso la frontale ed inizio a salire lungo la mulattiera nel breve tratto di bosco che rimane. Ho voluto farmi trovare in alto già di buon’ora questa mattina: il soggetto di oggi ama davvero le terre alte. Forse anche più di me. Poco dopo si fa sentiero che si arrampica per facili roccette che aprono su un magnifico anfiteatro minerale. Ambiente a noi ostile ma non per chi sto cercando: oggi è la volta della pernice bianca.
Ogni volta che supero il confine tra il mio mondo e quello del soggetto che mi sono prefissato di raggiungere, vengo pervaso da una sorta di timore reverenziale, una sensazione di essere arrivato a casa di qualcuno, a casa di qualche amico ed attendere di esservi accolto. Strana davvero la sensazione, ma è il segnale che attendo ogni volta. Quello che mi dà la conferma di essere arrivato -proprio- nel- punto- giusto- ed è davvero indescrivibile. Mi fermo qualche secondo per riprendere fiato ed assimilare ogni sfumatura di quegli istanti. Ed ecco che la conca glaciale risuona nell'eco del suo inconfondibile richiamo. È un suono gutturale, grezzo, ancestrale. Incredibilmente bello. Impossibile vederla, è ancora troppo buio. La individuo solo attraverso l'udito. Animale magico.
Vestita di neve d'inverno e di roccia d'estate è regina del mimetismo, un ormai raro gioiello che abita le nostre cime.
Provo a raggiungere a fatica la sorgente di quel suono primordiale, mi acquatto dietro ad una roccia ed attendo condizioni migliori di luce per poterla finalmente fotografare.
Continuo a sentirla vicinissima e spero dentro di me che non mi sorprenda e che rimanga in quel punto ancora per mezz’ora almeno. Ne approfitto per carpire ogni emozione che questi istanti mi stanno regalando, e sono davvero molte…
Da qualche minuto non sento più nulla, ma intanto il sole è sorto in lontananza e la luce è finalmente perfetta per qualche scatto. Non mi resta che imbracciare il binocolo ed osservare ogni sasso e ogni piega della montagna, consapevole di non essere solo. Eppure non la vedo, cavolo non la trovo. E se in quel lasso di tempo che non l’ho sentita era perché si era involata in un punto più lontano e nascosto alla mia vista? Ci ero andato così vicino questa volta…
Frustrato mi giro completamente dall’altra parte ed è lì, la vedo. È sempre stata dietro di me e mi sta osservando!
Ancora incredulo, impugno la macchina fotografica e, come accade sempre, gli attimi più belli rimangono quei brevi ed ineffabili secondi prima dello scatto. Attimi che sembrano occupare un tempo lunghissimo.
In quell'istante che è prima di tutto il resto.
Quando penso alle mie montagne penso inevitabilmente a tutte le creature che essa accoglie e che in essa esistono e sopravvivono. E, soprattutto nei periodi della brutta stagione, in cui fa freddo e nei quali noi abbiamo la fortuna di stare al caldo delle nostre case, ancor più spesso penso a loro e a quanta tenacia impiegano per affrontare ogni giorno una nuova alba e rinnovate sfide. E allora c'è chi migra verso sud, verso climi più miti e temperati. C'è chi accumula grasso e scorte in vista del lungo letargo. C'è chi si cambia l'abito estivo, indossando quello invernale più spesso, robusto ed assai più caldo.
E poi c'è Lei.
Lei ha le ali, ma non scappa. Il suo senso di appartenenza a quelle rocce ed a quelle cime è la sua arma contro qualsiasi minaccia. Lei, semplicemente, diventa bianca, per sfuggire ai predatori e per sottolineare la sua purezza. "Io appartengo a questo luogo", pensa lei.
"Ho le ali, ma non scappo."
Per me sono, assieme ai galli forcelli, una delle specie di uccelli più affascinanti che abitano le Dolomiti.
In Europa si trovano su quasi tutto l’arco alpino a quote comprese tra i 2300m e i 2800 m. Poi più nulla fino ad alcune zone della Scozia e l’artico ove si può trovare una sua variante.
La pernice bianca è infatti un “relitto glaciale”, una specie adattata ai climi freddi che con la fine dell’ultima glaciazione, diecimila anni fa, mentre i ghiacciai si ritiravano dalla pianura padana la tundra che la componeva scompariva, la pernice bianca migrava verso nord oppure saliva di quota per ritrovare condizioni più ideali.
Sono uccelli adattati ad ambienti estremi. Tutto il loro corpo è pensato per non disperdere energia. Fini piume ricoprono le narici in modo da riscaldare l’aria inspirata. Durante l’inverno dorme in buche scavate nella neve o si fa ricoprire durante le nevicate, in modo da disperdere meno calore e ripararsi durante le rigide notti invernali.
Hanno un'apertura alare di 60 cm e pesano tra i 400 e i 600 grammi. il loro periodo degli amori è in tarda primavera e la femmina curerà la cova da cui, dopo una ventina di giorni, nasceranno i piccoli.
Una loro caratteristica è il mutare il manto nel corso dell’anno.
Grigio e bianco durante la bella stagione e poi bianco come la neve durante l’inverno. Il manto è bianco come la neve perché la pernice deve assomigliare quanto più possibile all'ambiente candido attorno a lei. È il suo modo di sfuggire ai predatori.
Stare ferma immobile mimetizzandosi con il grigio delle pietre e con la neve.
La sua alimentazione è ostinatamente vegetariana ma non disdegna piccoli insetti, le pulci delle nevi, durante il periodo del disgelo.
Il suo nome latino è Lagopus muta. Lagopus è un riferimento alla somiglianza delle sue zampe a quelle della Lepre, in quanto sono ricoperte interamente di minute piume
Questo serve loro per camminare e isolarsi sui terreni innevati.
La seconda parte del nome latina è Muta, in riferimento al loro verso, somigliante a una raganella, quegli strumenti in legno usati per incitare i ciclisti durante una salita in montagna.
La sento cantare, la vedo, la avvicino grazie alle lenti del mio teleobiettivo. Si staglia contro il cielo blu, compongo l’immagine.
Una striscia blu cielo sulla diagonale, seguita da una bianca della neve e poi da una di erba gialla. In mezzo la pernice di profilo. È in muta parziale, si intravedono le piume grigie sotto il manto bianco. Il sopracciglio rosso vivo mi indica che ho davanti un maschio. Appena dietro un altro esemplare, bianco e senza sopracciglio, si appiattisce sulla neve. È una femmina.
Rassicura vedere una coppia. Spero che quest’anno riescano a portare a termine la cova, che non vengano disturbati da escursionisti chiassosi, che la volpe non cacci le uova e i piccoli, che si trovi un freno al cambiamento climatico affinché salendo in quota si continui a sentire il suo verso e si possa vedere d’improvviso, con la coda dell’occhio, un frullio d’ali bianco in volo sopra un paesaggio innevato.
Ah, un’ultima curiosità: Bepii de Marzi e Mario Rigoni Stern hanno composto una canzone in loro onore.
Ed ora anche io mi ritrovo a cantare dentro di me: volano le bianche!
Questo testo è scritto in collaborazione con Domenico Ferrara. Puoi trovare le sue foto qui: www.domenicoferrara.com
Questo testo è disponibile anche in versione Podcast su Andata e Ritorno Storie di Montagna
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