Civetta Nana
La neve caduta la notte precedente ha trasformato il bosco in un immenso foglio bianco. Un foglio bianco su cui le creature del bosco hanno scritto le loro vite.
Posso scorgere le impronti erranti della volpe a caccia e nel buco li vicino il suo andare a segno su un arvicola nascosta dalla neve. I solchi leggeri del capriolo, quelli più profondi del cervo e della lepre variabile. Ho un unico rammarico. Non essere stato li mentre tutta questa vita si svolgeva al sicuro delle tenebre della notte, con i rumori ovattati dalla neve.
Anche io scrivo su questo foglio bianco aggiungendo le impronte, che vanno a sovrapporsi a quelle del capriolo. Questa notte la mia scia più profonda e larga sarà di aiuto, rendendo più agevole il suo cammino.
Oltre a guardarmi intorno alla ricerca di qualche segno di vita tendo l’orecchio. Sento in lontananza un fischio breve a intervalli precisi. Un verso che conosco e che fa parte di un più vasto repertorio di canti.
Ho sempre pensato che il bosco e la montagna siano grandi libri che raccontano una storia magnifica, di biodiversità, di sopravvivenza e adattamento. Una storia i cui protagonisti non sono sempre così facilmente visibili e conosciuti. Come il piccolo rapace che sta cantando dall’alto di un abete. Il suo nome latino è Glaucidium passerinum, volgarmente Civetta Nana.
La Nana, come viene chiamata nell’ambiente dei fotografi naturalisti, è un piccolo rapace notturno, anzi il più piccolo della sua famiglia: gli strigidi.
È un rapace notturno ma si può osservarlo anche nelle prime e ultime ore della giornata.
La sua struttura fisica è adattata all’ambiente boschivo dove vive. Ali corte e arrotondate le permettono un volo agile tra gli alberi. Ha un udito e una vista finissima: una caratteristica essenziale per cacciare.
Mi fermo, il fiato lungo e il cuore che ancora pompa per lo sforzo. La salita non è impervia ma l’attrezzatura che ho nello zaino pesa.
Uno stormo di cincie dal ciuffo, more e bigie esce dagli alberi con un volo a onda andandosi a posare sui rami dell’abete sopra di me.
E’ tutto una varietà di canti festosi, come ad essere ad un mercato orientale.
La nana invece non si fa più sentire. Ma so che è vicina e probabilmente mi sta guardando nascosta tra i rami degli abeti.
Provo ad imitare il suo canto.
Le Nane sono molto territoriali e sentire un canto simile al loro le porta a controllare chi è l’intruso che è entrato nel loro territorio.
D’un tratto le cincie si zittiscono e si spostano sull’abete a fianco. Faccio appena in tempo a notare questo movimento che con la coda dell’occhio vedo un lampo marrone scendere dall’abete al mio fianco, attraversare il sentiero e posarsi appena più in alto di me su un abete orami rinsecchito e pieno di licheni.
Maledizione, ho la macchina nello zaino!
Perché se ce una legge non scritta nella fotografia naturalistica è che vedrai di tutto e di più fino a che avrai la reflex in zaino, poi stai pur sereno che non vedrai più nulla.
Mi levo lo zaino dalle spalle. Con movimenti che cerco di fare nella maniera più calma possibile ma che in realtà sono frenetici e maldestri, estraggo la reflex.
Accendo la macchina, via il copri lente, punto, premo il pulsante dell’auto focus ma….
Il tele non mette a fuoco e la nana se ne va.
Maledico la sfortuna ma poi noto che si è posata li vicino, con il foliage autunnale sopravvissuto ai primi freddi che fa da sfondo.
Controllo la reflex e l’obbiettivo. Tutto funziona, ha avuto solo un attimo di pigrizia. Con un occhio guardo l’ambiente circostante e con l’altro miro dove si è posata la Nana.
Non è facile manovrare un teleobiettivo 500mm fisso da 3,5 chilogrammi.
Allargo le gambe puntando bene i piedi per terra e avvicino i gomiti. Oggi non ho con me il treppiede, essenziale per poter gestire simili obbiettivi con questi pesi. Quindi devo essere io stesso il treppiede di qui ho bisogno.
Inquadro, scatto una breve raffica, stando il più fermo possibile. Una piccola oscillazione del tele a livello del fotografo si traduce in un grande spostamento nella scena che si sta riprendendo.
Questa volta l’autofocus va a segno ed io sono riuscito a non oscillare più di tanto. La Nana è lontana e mi rendo conto che un primo piano oggi è impossibile. Poco male, posso finalmente concentrarmi sulla composizione ambientata, per far capire l’habitat dove essa vive.
È un modo di fare fotografia naturalistica che voglio sviluppare nei miei scatti, anche se è molto difficile coniugare paesaggio e animali.
Rimango in sua compagnia una decina di minuti, poi mi allontano. Un pò più su mi fermo e guardo le anteprime delle foto. Sono molto scure, ma niente di impossibile con una post-produzione oculata.
La civetta non ha i segni da stress, ovvero testa squadrata “a televisore” e piume sotto il collo arruffate. Vuol dire che la mia intrusione è stata poco impattante e questa è una cosa a cui tengo. Sopratutto per un soggetto che mi affascina fin da quando l’ho incontrata per la prima volta l’anno scorso. L’incrociare il suo sguardo tra i rami di una faggeta colorata d’autunno ha smosso in me sentimenti di affetto per questo piccolo rapace.
Alla civetta nana ho dedicato queste parole:
Vederti è stata pura meraviglia, un sogno ad occhi aperti ma così magnificamente reale e vivido. Sei arrivata scortata dalle cince, posandoti su un ramo di un abete. Finalmente! dico in silenzio! Finalmente! Sul sentiero che ho percorso più volte ma probabilmente sempre con occhi e orecchie troppo poco attenti. Trovarti non è stata solo l’occasione di fotografarti ma anche di scoprire un altro pezzettino di biodiversità delle mie montagne.
Questo testo è disponibile anche in versione Podcast su Andata e Ritorno Storie di Montagna




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